Dario Braga

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L’università deve essere una zona franca preservata dalla politica internazionale

Pubblicata sul Sole 24 Ore del 15 gennaio 2024

Nel primo semestre dell’anno accademico 2023-2024 ho insegnato in due corsi internazionali a cui sono iscritti sia studenti italiani sia studenti provenienti da altri paesi. In via sperimentale, ho avuto la possibilità di coinvolgere negli insegnamenti docenti a loro volta internazionali. Hanno fatto lezione, vuoi in presenza vuoi in collegamento remoto, e discusso le loro esperienze scientifiche nei temi di interesse dei due corsi dodici tra colleghe e colleghi operanti in altri Paesi. Fin qui, nulla di strano, direi.
Il motivo per cui lo racconto è che questa modalità – in tempi di relazioni internazionali così tese – mi ha messo davanti a scelte non semplici, che esemplifico con un paio di domande.

Tra le studentesse del mio corso c’era una ragazza ucraina. So che il cognato è al fronte e che tutta la famiglia è nell’Ucraina aggredita dalla Russia. Che avrei dovuto fare con la docente russa dell’Università di Novosibirsk, tra le massime esperte di mechanochemistry (una delle materie di insegnamento) che aveva accettato di discutere i suoi lavori con i miei studenti? Forse dirle: “sono mutate le condizioni, è meglio lasciar stare”?
Il corso era frequentato anche da uno studente palestinese e da studentesse iraniane. Che avrei dovuto fare con la ricercatrice israeliana dell’Università di Haifa che aveva accettato il mio invito a contribuire al corso? Dire anche a lei, seppur per ragioni ben diverse, “è meglio lasciar stare”?
Per gli altri docenti, da India, Sud Africa, Portogallo, Germania, Irlanda del nord, Inghilterra, Stati Uniti, Polonia e Spagna, i problemi non c’erano, o erano molto minori, ma per la collega russa e quella israeliana? La mia risposta alle domande è stata una sola: andare avanti. So che qualche collega non ha apprezzato, ovviamente con motivazioni diverse, l’una o l’altra delle due decisioni e forse nemmeno tutti gli studenti.

Ho spiegato che la mia era una scelta personale, e che avevo contezza delle diverse sensibilità e che le rispettavo, ma anche che ritenevo che alzare muri dove si condividono conoscenze era ed è un errore. Un errore non accettabile in seno a una istituzione, come l’università, dove la trasmissione dei saperi, e più ampiamente, della cultura è il paradigma fondante. Nessun individuo dovrebbe essere discriminato perché il governo del proprio paese opera senza rispettare libertà fondamentali o fa scelte aggressive o guerrafondaie.

So che ci sono opinioni diverse. Alcune ed alcuni ritengono che le università debbano esercitare boicottaggi totali agli interscambi con alcuni paesi in guerra, e che gli Atenei debbano pronunciarsi apertamente contro le azioni dei governi. Infatti, non sono mancate iniziative e raccolte di firme dimenticando però che i Senati Accademici e i Consigli di Amministrazione sono eletti per governare gli Atenei non per partecipare alla politica estera del Paese. Parlo degli organi accademici, sia chiaro, non delle scelte dei partiti o dei singoli. Nulla da dire su prese di posizione, né su iniziative critiche o su manifestazioni a favore di un paese o contro un paese. Quanto si sta tragicamente dipanando in Israele, Gaza e Cisgiordania e in Ucraina e in Russia reclama una presa di coscienza fondata sui principi primi dell’autodeterminazione dei popoli e sul rispetto della vita umane e delle libertà individuali. Ma occorre stare bene attenti a non confondere le responsabilità dei singoli con quelle dei governi.

Discriminare gli studenti russi a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina è altrettanto sbagliato che discriminare una ricercatrice israeliana perché non si condivide l’azione del governo israeliano a Gaza. Qual è il confine? Che dovremmo fare, per esempio, con le studentesse e gli studenti iraniani? Come dimostriamo di non accettare le 74 frustrate all’attivista iraniana per il rifiuto di indossare il velo? Interrompiamo l’accoglienza degli studenti, togliamo il visto ai docenti iraniani? Gli esempi non mancano.

Non si tratta di reclamare per le università ruoli super partes che non esistono. Lo scopo è molto più pragmatico, è molto più concreto.  Al di là dello sdegno e del rifiuto per quanto sta accadendo, occorre preservare una zona franca, un terreno non neutrale, ma nemmeno belligerante, dove le diverse culture e le diverse storie possano continuare a comunicare mantenendo un linguaggio comune, pro futuro.

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